Inoltre la temperatura è in netta ascesa e mi ritrovo a fare i conti con un abbigliamento decisamente troppo pesante; nonostante l’ora e l’altitudine, dovrò fermarmi (per strada) per togliere praticamente tutte le imbottiture, dar sfoggio delle mie grazie e ritornare in configurazione estiva. Ma la cosa non mi dispiace! Sebbene abbia trascorso pochi giorni al freddo, inaugurare il mese di novembre con i guanti estivi è impagabile e mi fa dimenticare i quasi 37°C delle due del pomeriggio.
I chilometri, stavolta, sono veramente tanti e raggiungo casa del mio ospite con il contachilometri parziale ben oltre la soglia dei seicento. Senza contare la quantità di macchine che ho dovuto schivare: nei sorpassi, le auto contromano non si curano molto di chi arriva di fronte e, addirittura, ho incrociato anche un Idiota che guidava ‘all’inglese’ con strada libera! Quindi, oltre a guidare, ne ho approfittato per fare un po’ di ginnastica alle dita della mano sinistra: indice per lampeggiare, pollice per suonare, medio per… avete capito.
A fine giornata sono a pezzi, ma trovo un ambiente ospitale e accogliente come non mai: incontro Arash, la moglie Marjan ed il piccolo Hassan (questa volta i nomi non sono quelli reali, preferisco cambiarli con questi fittizi: nelle prossime righe vi spiego il perché), un concentrato di frenesia a dentoni ed occhi scuri. Il piccolo sembra particolarmente in sintonia con me e sin da subito inizia a chiamarmi “Amù”, ovvero “Zio”. Di nipotini ne ho già due e sono lontani, ma sentirmi chiamare “Zio” da queste parti… non so proprio come spiegarlo, fatto sta che ogni volta che prendo in braccio il piccolo Hassan mi sembra di stringere il piccolo Riccardo o il pestifero Lorenzo. Arash è gentilissimo e, prima che arrivassi, ha trovato uno spedizioniere che può farsi carico delle operazioni per la moto ad un prezzo accettabile; sempre di una tombola di tratta, tuttavia molto meno di quanto prospettatomi a Tehran via aereo. Sbrigate alcune pratiche, i documenti sono pronti ed in un’assolatissima giornata parcheggio la mia adorata in un asfissiante e grigio container. Con me resta solo l’indispensabile e tutti i miei averi, tutte le mie speranze ed i miei desideri sono rinchiusi in una cassa di acciaio lunga venti piedi.
La prendo con filosofia, ma so che la mia bella viaggerà comoda e rilassata: per una volta sarà lei ad essere trasportata in qualche (bel) luogo! Bandar Abbass ha un clima umido molto marcato: per ora è una bellezza godermi questa calura in novembre, ma in estate le punte di caldo raggiungono i 60°C ed il 100% d’umidità! Decisamente un’esperienza che non rimpiango… Venerdì, giorno di festa per i musulmani, Arash mi accompagna a visitare l’antistante isola di Queshm, la più grande del Golfo Persico. Io che questo golfo l’avevo sentito nominare, per la prima volta, alle elementari nel lontano 1991 e per motivi non proprio allegri… Ora, invece, sono su un’isola calda e assolata, a fare un bagno in un’acqua caldissima e cristallina, accarezzato da un mare finora sconosciuto, ma che mi accoglie con fare materno nonostante la reciproca lontananza per più di trent’anni. “E chi sta meglio di me?” penso mentre mi lascio cullare dalle dolci onde che arrivano dall’orizzonte… In serata i traghetti (di linea) sono pieni e ci affidiamo al mercato ‘clandestino’: un barcone carica noi e altre dodici persone, rotta verso terra fra petroliere e navi cargo… ovviamente a cielo aperto, senza salvagenti, luci o radio! Davvero un bel mix per trascorre 50’ in mare… Mi sento un rifugiato in fuga verso le costa di Lampedusa e, nella singolarità di questa situazione, mi rendo conto di cosa possa provare una persona in esilio, rischiando la vita per una vita migliore. Piccole riflessioni a novemila chilometri da casa…
Trascorro un paio di giorni a riposare e fare programmi, raccogliere informazioni su India e Birmania (sembra non ci sia possibilità di attraversarla a bordo di mezzi propri) ed aggiornare un po’ il Diario, vista le difficoltà nel trovare connessioni decenti. Tutto perfetto, ma c’è qualcuno che non la pensa come me. Arash lavora per un ente governativo (non militare); tale Compagnia fornisce a lui e famiglia anche la casa e molte altre agevolazioni, in un villaggio appositamente realizzato. Si tratta di un vero e proprio paese costruito per i dipendenti: intendo un paesino vero e proprio, con tanto di parchi, ristorante, medico, piscina, cinema, autostazione (con collegamenti gratuiti verso la città di Bandar Abbass) e un manipolo di guardie per la sicurezza interna. Per entrare mi è stato rilasciato un permesso speciale con annotato il mio nome, numero di passaporto e abitazione di Arash, mio ospite. Quando il capo della sicurezza lo ha saputo, ha iniziato a fargli domande circa la mia presenza in loco ed al perché. Il suo cruccio riguarda la sicurezza della Compagnia: secondo lui potrei essere una spia! Quando lo scopro, io e Arash scoppiamo a ridere! “L’impianto è stato costruito dagli Italiani, ti pare che se mai volessero avere delle informazioni non le hanno già?!” E poi ci sono i satelliti spia… va be’, la prendo con filosofia ed il giorno dopo mi reco a Bandar Abbass per le ultime formalità con l’agenzia dello spedizioniere.
Testo il comodissimo autobus che mi porta in città e mi riporta indietro, ma… al ritorno vengo prelevato dal mezzo e accompagnato in un ufficio dove un (finto) simpatico agente mi inizia a fare domande circa la mia presenza a casa di Arash. Il suo inglese è stentato e la sua assistente è peggio di lui (anche esteticamente). Mi chiedono più volte se sono veramente amico di Arash, appuntano i Paesi che ho attraversato in moto e fotocopiano tutti i documenti in mio possesso: passaporto, Carnet de Passage, libretto moto, patenti internazionali, assicurazione moto e perfino la ricevuta della revisione! Che idioti! A questo punto impongono un ultimatum: devo lasciare il villaggio entro la mattina del giorno seguente. (Dal momento che nella prossima pagina del Diario farò un resoconto di quanto visto, circa il regime vigente, ho deciso di celare l’identità del mio ultimo ospite: non voglio correre il rischio di mettere in mezzo lui e famiglia, qualora qualcuno della sicurezza cercasse informazioni su di me anche tramite internet. So che questa possibilità è decisamente remota, ma io non ho nulla da rischiare, loro sì.) Tornato a casa, Arash quasi si mette a piangere per la vergogna di quanto accaduto: è profondamente deluso da questo comportamento, ma io so che non è colpa sua e cerco, per quanto possibile, di rincuorarlo.
Per me ha fatto tanto: mi ha accolto in casa sua per una settimana, ha trovato uno spedizioniere affidabile (per quanto visto sinora) ed economico, mi ha fatto vedere le meraviglie dei sobborghi ed è stato sempre gentilissimo e amichevole con me. Proprio non la manda giù questa situazione e sentenzia: “Se prima avevo una minima voglia di lasciare questo Paese, ora ne ho ancora di più!” A questo punto devo prendere una decisione importante: non posso stare a perdere giorni a Bandar Abbass in attesa di trovare un volo decente, prendo un autobus verso Tehran e da lì troverò un aereo per Mumbai. I saluti e gli abbracci con Arash sono sinceri e la promessa è di rivederci, magari entrambi in Australia.
Ma ora evo concentrarmi sul da farsi: mi aspettano diciotto ore di pullman per tornare nella capitale. Neppure in gita scolastica (verso Praga) sono rimasto seduto così a lungo (e la compagnia era migliore) e mi ritrovo a ripercorrere a ritroso tutta la strada sin qui fatta. Inoltre ci svegliano molte volte nel corso della notte: i posti di blocco, che in moto attraversavo di volata senza che nessuno mi fermasse, stavolta servono per controllare il vano bagagli, fare un giro a bordo, guardarci in faccia mentre siamo tutti assonnati e farci perdere tempo.
Avviso i miei amici a Tehran e l’indomani, con molta fatica, riusciamo a rivederci. Stavolta sono ospite di Oktay, devo aspettare sino a sabato per avere informazioni circa il mio volo, ma sembra che un barlume di speranza si schiuda in questo cielo grigio di Tehran. Ho passato veramente troppi giorni in Iran, per risolvere l’inconveniente del visto pakistano, finalmente (e dopo molti grattacapi) posso cominciare a vedere i colori della bandiera indiana…